La responsabilità datoriale per il fatto illecito commesso dal dipendente

Fattispecie concreta

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 4099 del 18.02.2020, afferma che il datore, in quanto oggettivamente responsabile, deve risarcire il danno provocato dall’illecito commesso da un suo dipendente durante lo svolgimento del proprio lavoro.

In particolare, ha deciso che il lavoratore che subisce sul luogo di lavoro una violenza, ha diritto di ottenere dal datore di lavoro sia il risarcimento del danno biologico, rappresentato dall’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali, che di quello esistenziale, inteso come sofferenza interiore patita dal soggetto in conseguenza della lesione del suo diritto alla salute ex. art. 32 Cost.

 

Il fatto affrontato

Nel caso sottoposto all’attenzione dei giudici di legittimità, una lavoratrice ricorre giudizialmente, avverso la società datrice, al fine di ottenere il risarcimento dei danni riportati per effetto delle molestie sessuali poste in essere nei suoi confronti da due suoi superiori gerarchici, seguite, a breve distanza di tempo, dallo stupro perpetrato da uno di essi.

In particolare, con riferimento all’accertamento della responsabilità ai sensi dell’art. 2049 c.c., la Suprema Corte, ripercorrendo la condotta tenuta dal datore di lavoro appellante alla luce delle informazioni di cui lo stesso al tempo disponeva, rileva che questi aveva deciso di non prendere alcun provvedimento nei confronti del dipendente accusato, non aveva avviato alcuna indagine interna ed aveva mantenuto una posizione di imparzialità, in attesa dell’esito delle indagini della Procura. Tale intendimento è stato ritenuto dai giudici completamente illegittimo. Il datore di lavoro aveva, inoltre, omesso di adottare in concreto provvedimenti idonei a consentire alla dipendente di rientrare dalla malattia e lavorare in sicurezza: aveva unicamente proposto una differente turnazione che, però, data la natura della struttura di lavoro, non sarebbe riuscita ad evitare i contatti tra le persone coinvolte. L’appellante, infine, non aveva nemmeno preso in considerazione la richiesta avanzata dalla lavoratrice di venire trasferita in diversa struttura; misura che, secondo la Corte, sarebbe stata invece l’unica idonea a tutelare la lavoratrice.

La Corte conferma, quindi, la responsabilità del datore di lavoro per omessa tutela delle condizioni di lavoro della ricorrente, cagionata attraverso la mancata adozione di misure idonee, nonché l’inadeguatezza di quelle proposte, per tutelarne l’integrità fisica e morale. Quanto al profilo della responsabilità oggettiva dell’appellante per il danno arrecato dal fatto illecito del dipendente nell’esercizio delle proprie incombenze ai sensi dell’art. 2049 c.c., la Corte d’Appello conferma quanto stabilito dal giudice di prime cure, duplicando la somma quantificata in primo grado a titolo di risarcimento per danno non patrimoniale.

La lavoratrice è però ricorsa in Cassazione sostenendo che i giudici di merito hanno riconosciuto solo il risarcimento del danno biologico, ma non hanno tenuto conto delle risultanze della perizia medico legale che ha riscontrato anche un danno alla vita di relazione.

 

La sentenza

La Cassazione afferma, preliminarmente, che la responsabilità indiretta del datore di lavoro ex art. 2049 c.c., per il fatto dannoso commesso dal dipendente, non richiede che, fra le mansioni affidate all'autore dell'illecito e l’evento, sussista un nesso di causalità, essendo sufficiente un nesso di occasionalità necessaria.

Trattandosi di una responsabilità oggettiva è, inoltre, assolutamente irrilevante la valutazione della componente soggettiva dell'autore rispetto all'illecito, sussistendo la responsabilità datoriale anche laddove il lavoratore abbia agito con dolo o per finalità strettamente personali. Secondo i Giudici di legittimità, in caso di un illecito perpetrato da un dipendente, il datore deve liquidare alla vittima il risarcimento del danno biologico patito (inteso come lesione dell’integrità psico-fisica), aumentato secondo la c.d. personalizzazione, necessaria ad indennizzare le conseguenze che detto danno ha provocato nella relazione del soggetto con la realtà esterna. Su tali presupposti, la Suprema Corte accoglie il ricorso della lavoratrice, non avendo l’impugnata pronuncia liquidato il danno morale dalla stessa subìto a seguito delle violenza altresì sostenendo che, i giudici di merito, hanno il compito di valutare congiuntamente, ma in modo distinto, la compiuta fenomenologia della lesione non patrimoniale e cioè, tanto l’aspetto interiore del danno sofferto (c.d. danno morale) da identificarsi con il dolore, come in ipotesi di vergogna, della disistima di sé, della paura, ovvero della disperazione, quanto quello dinamico relazionale (atto ad incidere in senso peggiorativo su tutte le relazioni di vita esterne del soggetto).

 

Problematiche

Un rischio che non deve essere sottovalutato, nel quadro delle responsabilità verso terzi e degli obblighi del datore di lavoro titolare di una propria attività, è senza dubbio quello che riguarda il comportamento dei dipendenti.

Questa responsabilità applicata ai rapporti c.d. “di impresa” sta a significare che l’imprenditore, il quale sopporta il rischio delle sua impresa, è responsabile dei danni che vengono cagionati a terzi da soggetti inseriti nell’organizzazione aziendale.

Fermo restando il criterio della libera organizzazione economica sancita dall’art. 41, 2°co Cost., più precisamente, per la sussistenza della responsabilità dell’imprenditore ai sensi dell’art. 2049 c.c., non è necessario che le persone responsabili dell’illecito siano legate all’imprenditore da uno stabile rapporto di lavoro subordinato, ma è sufficiente che le stesse siano inserite, anche se temporaneamente od occasionalmente, nell’organizzazione aziendale, ed abbiano agito, in questo contesto, per conto e sotto la vigilanza dell’imprenditore (Cass. 09/08/04, n. 15362; Cass., sez. III, 09/11/05 n. 21685).

Si prescinde quindi dalla continuità dell’incarico, nonché dal formalizzarsi di esso in contratti di lavoro, di collaborazione o simili e si considera, pertanto, committente anche chi si avvale, nell’esecuzione di un determinato lavoro, dell’attività lavorativa di persona che, seppur nominalmente figurante alle dipendenze di altri, debba peraltro rispondere verso di lui (o verso entrambi) del proprio operato, senza che sia necessario accertare (e qualificare) la natura del rapporto intercorrente tra l’effettivo committente ed il datore di lavoro solo nominale dell’ausiliario (Cass. 91/8668).

Gli elementi costitutivi della fattispecie sono dunque: (I) che il danno sia materialmente attribuibile alla condotta del dipendente (nesso di causalità); (II) che sussista un vincolo di dipendenza (requisito da interpretarsi estensivamente) e che, infine, (III) sussista un rapporto di occasionalità necessaria tra il fatto illecito e le incombenze cui era adibito il preposto.

In altre parole, in riferimento a quest’ultimo requisito, l’esercizio delle mansioni del dipendente deve aver reso possibile, o comunque agevolato, il comportamento produttivo del danno; anche se è opportuno sottolineare che non si deve individuare un preciso nesso di occasionalità necessaria, in quanto la responsabilità del datore di lavoro non è esclusa dal fatto doloso o addirittura dal reato del dipendente, in quanto tale fatto è strettamente pertinente al “rischio di impresa” e quindi la sottoposizione alla sfera del controllo manageriale.

In particolare, la massima enucleabile dalla sentenza Cassazione penale 25 luglio 2013 n.32462 ritiene che “per l’affermazione della responsabilità civile per il fatto penalmente illecito posto in essere dal dipendente non è necessario che la persona responsabile dell’illecito sia legata all’imprenditore da uno stabile rapporto di lavoro subordinato, ma è sufficiente che la stessa sia inserita, anche se temporaneamente od occasionalmente, nell’organizzazione aziendale, ed abbia agito, in questo contesto, per conto e sotto la vigilanza dell’imprenditore. È quindi rilevante un rapporto di occasionalità necessaria, nel senso che l’incombenza disimpegnata deve aver determinato una situazione tale da agevolare o rendere possibile il fatto illecito e l’evento dannoso, anche se l’agente abbia operato oltre i limiti delle sue incombenze, purchè sempre nell’ambito dell’incarico affidatogli, così da configurare una condotta del tutto estranea al rapporto di lavoro”.

Ma v’è più. Scorgendo tra le righe, la Cassazione, nella motivazione, in osservanza dell’omessa vigilanza (ivi della mancata adozione di ogni misura idonea a prevenire il fatto illecito del dipendente in cui possa risiedere, seppur una non responsabilità “soggettiva” direttamente imputabile al datore di lavoro, un nesso di causalità naturale in cui la condotta omissiva perpetrante di quest’ultimo si è posta come condicio sine qua non alla realizzazione dell’evento dannoso) da parte del datore di lavoro, ha sottinteso che un dovere di attivarsi in favore di altri, ed una correlativa responsabilità per omissione, potrebbe essere ravvisato in tutte le situazioni di “contatto sociale” in cui possa dirsi sussistente un dovere di solidarietà adeguatamente qualificato secondo la coscienza sociale del momento storico.

Sebbene questo principio sia, di sovente, utilizzato in giurisprudenza per denotare il rapporto medico-paziente, insegnate-allievo e privato-Pubblica Amministrazione, le sentenze emanate nel corso del tempo hanno contribuito ad estendere le maglie di questo corollario di tutela. Specificamente, la particolarità risiede nel fatto che la responsabilità, nel caso di specie, non deriva unicamente da un contratto bensì (ed ulteriormente) da un “contatto”, cioè, un legame di fatto che intercorre tra due soggetti, in relazione al quale, uno dei due, riveste una posizione di garanzia nei confronti dell’altro, dalla quale discende, per il primo soggetto un c.d. “obbligo di protezione”(1). Quest’ultimo ha carattere oggettivo (non economico, a differenza delle ipotesi stricto sensu contrattuali) riconnessa al principio di buona fede ed alla circostanza che possa insorgere degli affidamenti fattuali diversi rispetto ai comportamenti non dovuti ex lege (tradotto, la vittima dell’illecito aveva riposto le sue aspettative basate su fiducia e buona fede, nei confronti del datore, nella speranza che, essendo a conoscenza della situazione, potesse adottare ogni misura idonea tradotta in provvedimenti idonei alla sua salvaguardia). Quindi, implicitamente, viene affermato il combinato disposto degli artt. 2049 c.c. e 1173 c.c. in cui, l’ulteriore obbligazione (ivi risarcimento del danno) che discende da “ogni altro fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico”, il “fatto” in questione fa riferimento, qui, a rapporti per i quali sussiste l’affidamento di una parte nei confronti dell’altra. Ergo, vi è un soggetto che riveste un particolare status, il quale gli impone di comportarsi secondo buona fede e di garantire l’affidamento che la parte, con cui entra in contatto, pone in essere nei suoi confronti. Si tratta dunque di un obbligo di protezione ravvisabile nel datore di lavoro dove, in prima istanza, deve remunerare il lavoratore e in seconda tutelarlo ma è comunque obbligato ad entrambe le prestazioni.

La ratio riposa sulla necessità di garantire una maggior tutela alla c.d. “parte debole” del rapporto contrattuale. 

 

Soluzione

La sentenza è determinante per comprendere la soluzione della giurisprudenza in merito al dettato normativo ex art. 2049 c.c. secondo il quale, dapprima, comprendeva la colpa presunta del datore di lavoro per non aver scelto bene il dipendente o per non aver vigilato sulla sua attività (culpa in eligendo e culpa in vigilando). Ora, si ritiene che la legge addossi all’imprenditore la responsabilità indipendentemente da qualsiasi colpa ma soltanto perché sembra più giusto accollare il rischio delle attività dei dipendenti al soggetto che di quelle attività si avvale, le organizza e ne conserva i benefici (pare non più coerente, con l’organizzazione economica attuale, dispensare una responsabilità presunta al datore di lavoro dal momento che, lo scenario delle grandi imprese, non consente di effettuare un controllo preciso e penetrante su tutti i dipendenti sin dalla primordiale fase di assunzione).

La funzione della responsabilità oggettiva per rischio creato, che nel nostro sistema giuridico si fonda essenzialmente su due pilastri, ossia la responsabilità per danno da cose e la responsabilità per il fatto illecito dei dipendenti, si ravvisa, in quest’ultima, la responsabilità del datore di lavoro in tutti quei casi in cui viene resa più efficacemente operativa la responsabilità per colpa dei suoi dipendenti perché, per lui, che è al centro dell’organizzazione, è più facile identificare il colpevole (2).

L’elemento di ancoraggio di questa responsabilità è ovviamente la sussistenza di un vincolo di dipendenza tra il lavoratore che provoca il danno a terzi ed il datore di lavoro chiamato a risponderne. Tale elemento viene inteso dalla giurisprudenza in senso “estensivo” e cioè affinché sussista tale vincolo non è necessario che vi sia un formale rapporto di lavoro subordinato ma è considerato sufficiente che la prestazione si sia svolta di fatto in regime di subordinazione e comunque ogni volta che il danno è stato causato da un soggetto che è inserito in modo stabile nell’organizzazione dell’imprenditore, soggetto al potere direttivo di quest’ultimo. Tant’è che sono ricompresi nell’interpretazione estensiva tutti i rapporti che, anche nel caso in cui il rapporto di lavoro sia formalmente incardinato presso un soggetto diverso, può essere riconosciuta la responsabilità del soggetto che si avvale della prestazione di lavoro. Tuttavia c’è un secondo elemento che deve sussistere unitamente al primo per aversi questo tipo di responsabilità in capo al datore di lavoro e cioè il c.d. “rapporto di causalità necessaria” con il lavoratore. Ciò significa che il danno deve essere stato prodotto dal dipendente nello svolgimento delle proprie mansioni o, comunque, essere stato agevolato dallo svolgimento dei compiti tipici del rapporto di lavoro. In altre parole il danno deve essere conseguenza delle azioni e/o omissioni perpetrate nello svolgimento delle proprie mansioni o incombenze proprie del rapporto di lavoro.

Nonostante i principi sanciti dall’ordinamento in cui viene simultaneamente affermato che la natura della responsabilità penale è personale (art. 27, primo comma, Cost.) e che, ai sensi dell’art. 40 c.p., “nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato […] se non è conseguenza della sua azione od omissione” ed il “non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”, si sottendono ed arrestano di fronte alla ratio della responsabilità ex art. 2049 c.c. che è considerata espressione di un criterio di allocazione dei rischi, per il quale i danni cagionati dai dipendenti sono posti a carico dell’impresa, come componente dei costi di questa; e ciò si giustifica con diverse ragioni, ma soprattutto con la capacità dell’impresa di assorbire i costi e di distribuirli nella collettività.

Anche se la giurisprudenza di legittimità afferma saldamente che il nesso di causalità necessaria, pur derivante da un rapporto di occasionalità, sia desumibile dai criteri ausiliari con valore indiziario (luogo della prestazione, vincolo di orario, posizione sociale delle parti, durata del rapporto, continuità, esclusività), ciò non equivale alla costante “marchiatura indelebile” di una responsabilità civile del datore di lavoro in toto: non sussiste, infatti, la responsabilità del datore se il danno è stato causato dal dipendente al di fuori delle incombenze proprie del rapporto di lavoro e cioè a questo estranee. Quando, invece, il danno è commesso nell’ambito del rapporto di lavoro, il datore, ne risponde anche se dimostra il comportamento colposo o doloso del dipendente. Perciò, paga i danni anche se causati da un dipendente che ha travalicato i limiti dei propri poteri, o, addirittura, se il lavoratore ha agito violando gli ordini ricevuti.

Sicuramente, quella dell’imprenditore è un tipo di responsabilità civile che egli assume in concomitanza dell’assunzione di tutti gli altri rischi correlati all’esercizio dell’impresa e, nel caso di specie, si intensifica allorquando, pur essendo consapevole delle condotte dannose dei suoi dipendenti in danno a a terzi, non adotta alcuna precauzione ovvero provvedimento, rimanendo in una posizione di imparzialità.

Pertanto, l’obbligo di risarcimento che grava sul datore ha lo stesso contenuto di quello dell’autore diretto del danno.

Nel caso concreto, stante una capitis deminutio della vittima, la responsabilità del datore di lavoro si intensifica e può comportare altresì un’obbligazione a suo carico di risarcimento estesa non al solo danno patrimoniale (art. 1223 c.c.), ma anche al danno biologico, e cioè al danno non patrimoniale costituito dalle conseguenze pregiudizievoli per la salute derivanti dalle menomazioni fisiopsichiche prodotte dal comportamento inadempiente del dipendente.

Le difese “scagionanti” per il datore di lavoro, alla luce della sentenza della Suprema Corte, sono pressoché inesistenti stante la perpetrazione dell’illecito all’interno delle mura aziendali; per cui, l’unica “difesa” altro non è che quella assicurativa con cui provvederà a liquidare il danno per mezzo della compagnia di assicurazione (il premio, pur costituendo un costo, viene calcolato e ripartito nel bilancio d’azienda e sarà - in un’ottica di ripartizione costi-benefici- sempre meno oneroso rispetto alla liquidazione del danno “di tasca propria” cosicché da non turbare eccessivamente i fragili equilibri economico aziendali).

Resta comunque ferma (in ipotesi di aziende di medio-grandi dimensioni) l’adozione di un modello di organizzazione, gestione e controllo ai sensi del D.Lgs. 231/2001 consentente il regime delle procure e delle deleghe aziendali, gli organigrammi e le norme tecniche aziendali con i riferimenti di chi gestisce il lavoro nei vari settori fino al sistema disciplinare. Un controllo del business, a cominciare dal controllo di tutte le proprie attività interne ed esterne, riduce considerevolmente la possibilità di errore (colpa) ed agisce da deterrente per eventuali comportamenti dannosi voluti (dolo).

Valentina Minervini, laureanda presso l'Università degli Studi Milano - Bicocca

______________

Fonti:

(1) Salvatore Messina, Riv. Obiettivo Magistrato, pag. 11, Marzo 2018, Dike Giuridica

(2) P. Trimarchi, La responsabilità civile: atti illeciti, rischio, danno; p. 297, Giuffrè