La responsabilità civile extracontrattuale del magistrato

Fattispecie concreta

In tema di responsabilità civile del magistrato, la terza sezione civile della Corte ha cassato la sentenza d'appello di rigetto della domanda di risarcimento dei danni proposta, nei confronti dell’autorità giudiziaria requirente, dai figli minori per l'uccisione della propria madre da parte del padre, avvenuta dopo la presentazione di reiterate denunce di minacce rivolte verso la vittima. La Corte ha stabilito che il giudice di merito essendo tenuto, nell’accertare il nesso causale fra la lamentata condotta omissiva (ravvisata nell'omessa perquisizione domiciliare e sequestro dell’arma da taglio con la quale l’omicida aveva già reiteratamente minacciato la moglie) ed il fatto lesivo, a compiere il cd. giudizio controfattuale in base al criterio del “più probabile che non”, non può escluderne l’incidenza sulla verificazione dell’evento solo perché questo si sarebbe comunque realizzato in altro modo, omettendo così di determinare, alla luce degli elementi di conferma disponibili nel caso concreto, la probabilità, positiva o negativa, che da detta condotta, ove posta in essere, potesse derivare un risultato idoneo ad evitare il rischio specifico di danno.

 

Il fatto affrontato

Il caso sottoposto ai giudici di legittimità pone l’accento sulla problematica attinente alla responsabilità civile del magistrato, ad oggi ancora fortemente dibattuta nel sentimento popolare, a fronte del ricorso presentato dai figli della vittima i quali, vedendosi rigettare la domanda di risarcimento danni proposta in sede d’appello per i danni da essi subiti sia sotto il profilo della mancata adozione di misure idonee cautelari potenzialmente idonee a tutelare la madre onde evitare il fatto dannoso sia sotto il profilo meramente patrimoniale a seguito dell’uccisione della stessa, sostengono la pretesa risarcitoria fondandola sul criterio della responsabilità civile ex artt. 2 L.117/1988 e 2043 c.c. Nel caso di specie, i fatti non controversi si sostanziano nel fatto che, la vittima fu uccisa dal marito, con il quale aveva in corso una causa di separazione connotata da accesa conflittualità per l’affidamento dei figli, con plurimi fendenti di un coltello a serramanico; il marito venne arrestato subito dopo, tratto a giudizio e riconosciuto colpevole del delitto di omicidio in danno alla moglie. La Corte d’Appello ha, con la sentenza impugnata, ritenuto che i fatti rilevanti in causa fossero quelli fatti oggetto della denuncia presentata dalla vittima antecedentemente all’evento dannoso in cui, il Tribunale, aveva «ritenuto la sussistenza di una grave violazione di legge, commessa con negligenza inescusabile, in relazione ai fatti denunciati», evidenziando, tra l’altro, che l’arma contundente venisse utilizzata in modo velatamente minatorio ed improprio ante fatto. Successivamente, sempre la stessa Corte, ha precisato che l’inadempimento dell’organo di pubblica accusa era da ravvisarsi nella mancanza di una perquisizione e dell’eventuale successivo sequestro del mezzo fendente ed a sostegno di tale argomentazione risiedono le denunce effettuate dalla moglie e da cui, una volta pervenuta la notitia criminis, «la Procura abbia esclusivamente proceduto alla - doverosa - iscrizione del marito nel registro degli indagati per i reati di cui agli artt. 612 e 388 cod. pen. con successivo esercizio dell’azione penale ex artt. 459 ss c.p.c., ma non abbia compiuto alcun atto di perquisizione e sequestro».

Nel prosieguo, la sentenza d’appello evidenzia che il quadro normativo dell’epoca (nello specifico dei fatti accaduti, Giugno 2007) non consentiva la richiesta, e quindi l’emissione, di misura cautelare per i fatti di cui alle denunce presentate, né era stato introdotto nell’ordinamento il reato di cd. stalking, di cui al d.l. n. 11 del 23/11/2009 (convertito con modificazioni nella L. 38/2009, che ha introdotto l’art. 612 bis c.p.), che, alla stregua delle risultanze della consulenza tecnica di ufficio eseguita nella causa di separazione coniugale, non risultavano patologie psichiatriche in capo al marito e che, sulla base della certificazione del Servizio Territoriale per le tossicodipendenze, lo stesso non era in stato di dipendenza da droghe, con conseguente esclusione dei presupposti applicativi della misura di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario o in casa di cura. La Corte d’Appello, come precisano gli ermellini, tuttavia, ha continuato a ritenere dirimente, tendenti ad escludere una condotta inadempiente degli organi pubblici, la mancata effettuazione di una perquisizione, ponendo in dubbio che l’arma con cui si mostrò il marito fosse la stessa che, successivamente, utilizzò per l’omicidio (in altro passo della motivazione la Corte territoriale aveva evidenziato che un coltello era già stato consegnato in precedenza ai Carabinieri). La sentenza d’appello afferma che «l’unico addebito che può, pertanto, muoversi alla Procura consiste nella mancata effettuazione di una perquisizione volta alla ricerca del coltello utilizzato per minacciare la moglie e nel successivo sequestro» e prosegue nella disamina della sussistenza o meno del nesso causale tra la condotta omessa (mancata attuazione della condotta dovuta) e l’evento dannoso giungendo alla conclusione che, in considerazione della fermezza del proposito dell’omicida, «non si è trattato di un omicidio d’impeto ma accuratamente programmato» manifestatosi e conclusosi con l’uccisione della moglie su pubblica strada». Prosegue, altresì, affermando che «l’omissione addebitabile alla Procura sia stata eziologicamente inefficiente, poiché la perquisizione e l’eventuale sequestro del coltello non avrebbero impedito la morte della giovane mamma».

 

La sentenza

Con la sentenza n. 13848/2020, la Suprema Corte evidenzia che il percorso della Corte d’Appello e la motivazione offerta è perplessa e contraddittoria, oltre ad essere in contrasto con le regole che governano l’accertamento del nesso eziologico, la motivazione offerta è perplessa e contraddittoria. La contraddittorietà della motivazione risulta evidente ed a sostengo di tale tesi sottolinea come in concreto, la Corte di merito, affermando che, stante l’intendo omicidiario del marito del tutto comprovato, qualsiasi intervento dell’Ufficio giudiziario sarebbe stato ininfluente e ciò lo si scorge testualmente nelle motivazioni in cui «il marito infatti, avrebbe potuto facilmente procurarsi un’altra arma avente caratteristiche similari a quello utilizzato per uccidere, semplicemente acquistandola». In tal modo la Corte di merito ha, pur affermando di effettuare il cd. giudizio controfattuale, escluso la rilevanza causale di qualsiasi possibile antecedente logico, operando in modo difforme da quanto costantemente prescritto in materia. Per gli ermellini, la giurisprudenza (Cass. n. 23197/2018) afferma, con orientamento che in sede di legittimità si intende ribadire, che «in tema di responsabilità civile, la verifica del nesso causale tra condotta omissiva e fatto dannoso si sostanzia nell’accertamento della probabilità positiva o negativa del conseguimento del risultato idoneo ad evitare il rischio specifico di danno, riconosciuta alla condotta omessa, da compiersi mediante un giudizio controfattuale, che pone al posto dell’omissione il comportamento dovuto. Tale giudizio deve essere effettuato sulla scorta del criterio del “più probabile che non”, conformandosi ad uno standard di certezza probabilistica, che, in materia civile, non può essere ancorato alla determinazione quantitativa-statistica delle frequenze di classi di eventi (cd. probabilità quantitativa o pascalina), la quale potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato riconducendone il grado di fondatezza all’ambito degli elementi di conferma (e, nel contempo, di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili nel caso concreto (cd. probabilità logica o baconiana).» È, inoltre, giurisprudenza costante della Suprema Corte (Cass. n. 13096/2017) che «in materia di illecito aquilano, l’accertamento del nesso di causalità materiale in relazione all’operare di più concause ed all’individuazione di quella cd. “prossima di rilievo” nella verificazione dell’evento dannoso, forma oggetto di un apprezzamento di fatto del giudice di merito che è sindacabile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3) c.p.c., sotto il profilo della violazione delle regole di diritto sostanziale recate dagli artt. 40 e 42 c.p. e 1227, co. 1, c.c.».

 

Le ragioni della decisione

Per la Cassazione, l’operazione logica, così come effettuata dalla Corte di Appello, di giudizio sul nesso causale (che è, e resta, un giudizio di fatto, rimesso per ciò al solo giudice di merito, anche qualora si tratti di cause di responsabilità civile ai sensi della L. 117/1988, in cui si controverte dell’ipotesi tipica in cui il magistrato è chiamato ad interpretare le norme di diritto - Cass. n. 13189/2015 -) non è in realtà correttamente impostata, in quanto, anche attraverso un’eccessiva frammentazione dei fatti, con conseguente inintelligibile polverizzazione di alcuni episodi (come la considerazione del giudicato sostanziale formatosi sui fatti oggetto di talune denunce presentate dalla vittima) si priva di rilevanza l’antecedente logico, ossia la condotta omessa, poiché si afferma che qualunque essa potesse essere, l’evento di danno si sarebbe comunque verificato. Così motivando, la Corte d’Appello, ha dilatato l’incidenza della inadempienza dell’organo giudiziario ai limiti del caso fortuito e della forza maggiore, o, comunque, ha ristretto l’evitabilità dell’evento ai soli casi di assoluta impossibilità di una condotta positiva alternativa e per queste ragioni, gli ermellini della Terza Sezione civile, ritengono valido l’accoglimento del ricorso proposto dai figli della vittima e cassano con rinvio la sentenza impugnata ad altro giudice di pari grado a quello che ha pronunciato la sentenza. La necessità e la scelta di demandare ad altro soggetto esercente la funzione giurisdizionale riposa negli esiti grandemente difformi, precedentemente pronunciati, nelle fasi preliminari al merito e di merito.

 

Problematiche e soluzione

La responsabilità dei magistrati assume varie forme e si declina in modi differenti a seconda dei casi (in particolare, di tipo “politico” declinabile e classificabile in “istituzionale” e “diffusa” e di tipo “giuridica” a sua volta distinguibile in “civile” e “penale”) ma per ciò che attiene al tema della responsabilità giuridica, in particolare alla responsabilità civile, nell’esercizio delle funzioni giudiziarie, è la L. 117/1988 (cd. “legge Vassalli”), approvata a seguito del referendum abrogativo della previgente normativa (d.p.r. n. 497/1987) - considerata, quest’ultima, molto limitativa in relazione alla responsabilità civilistica dei giudici, a disciplinarne il contenuto e le modalità applicative. La legge ha cercato di contemperare i due principi della responsabilità civile dei giudici con l’esigenza di salvaguardarne l’indipendenza e l’autonomia, e ha in parte corrisposto agli obiettivi originari fissati con il referendum, realizzando una responsabilità più virtuale che reale, da portare, a seguito di un lungo dibattito, alimentato anche dalle sollecitazioni della Corte di Giustizia Europea, alla riforma con la l. n. 18 del 27 febbraio 2015, entrata n vigore il 19 marzo 2015. Di fronte ai risultati prodotti dalla legge Vassalli, giudicati da più parti non rispondenti agli obiettivi originari posti con l’esito referendario, sono stati presentati nel tempo svariati progetti di legge, volti ad introdurre modifiche sia sotto il profilo sostanziale che sotto quello procedurale, al fine di contemperare, da un lato, l’esigenza di una reale applicabilità della responsabilità civile dei magistrati, dall’altro di non comprometterne le necessarie autonomia ed indipendenza. I vari disegni di legge si sono mossi nell’ottica di un’ introduzione di forme dirette di responsabilità del magistrato, almeno in caso di dolo, di una semplificazione del procedimento per la responsabilità in caso di colpa grave, di una garanzia di terzietà con la previsione di una composizione mista (anche di cittadini), e della revoca del limite della posta risarcitoria. Nel difficile dibattito sul tema si è inserita anche la Corte di Giustizia dell’Unione europea, che si è pronunciata in più occasioni sulla mancata rispondenza della legge Vassalli alle norme del diritto comunitario, soprattutto in merito all’esclusione della responsabilità del magistrato nei casi di interpretazione di norme di diritto o della valutazione di fatti e prove e all’imposizione di requisiti poco rigorosi (nelle ipotesi di responsabilità ammesse) nei confronti della violazione palese del diritto vigente dando avvio ad una procedura di infrazione conclusasi con una sentenza di condanna per l’Italia (Commissione c. Italia 24.11.2011) per violazione degli obblighi di adeguamento del proprio ordinamento al principio di responsabilità degli Stati membri. La legge n. 18/2015, nell’ottica di adeguare l’ordinamento italiano alle indicazioni fornite dalla Corte di Giustizia Europea, modifica molto la l. n. 117/1988, mantenendo lo stesso inalterato il principio della responsabilità indiretta dei magistrati, invocato da più parti, e agendo sotto il profilo della limitazione della c.d. “clausola di salvaguardia”, della ridefinizione in senso più ampio delle fattispecie di colpa grave, eliminando anche il filtro di ammissibilità della domanda e rendendo obbligatoria e più stringente la disciplina della rivalsa dello Stato verso il magistrato responsabile. A seguito della riforma viene ampliato lo spettro delle ipotesi del risarcimento dei danni, patrimoniali e non, attraverso l’eliminazione della norma di chiusura “che derivino da privazione della libertà personale”, in precedenza prevista dal comma 1 dell’articolo 2. Resta invariato il principio di responsabilità indiretta, secondo il quale il cittadino che ha subito un danno ingiusto a causa del magistrato dovrà agire, attraverso l’apposita azione, esclusivamente nei confronti dello Stato, che si rifarà in un secondo momento sul giudice responsabile, fatta salva l’ipotesi della quale all’articolo 13, comma 1, della l. n. 117/1988, che prevede che il cittadino, se il danno causato dal magistrato nell’esercizio delle sue funzioni consegua a un fatto che costituisce reato, possa esperire l’azione civile per il risarcimento nei confronti del magistrato e dello Stato secondo le norme ordinarie. Sul requisito dell’ingiustizia, il danno deve rappresentare l’effetto di un comportamento, atto o provvedimento giudiziario posto in essere da un magistrato con “dolo” o “colpa grave” nell’esercizio delle sue funzioni oppure conseguente “a diniego di giustizia”(1). Ciò che è di particolare rilevanza ed interesse nella sentenza n. 13848/2020, è l’attività logicoargomentativa posta in essere dalla Suprema Corte sotto un duplice aspetto. Il primo, pur essendo incline, la Corte, a una deferenza per lo più non priva di servilismo e di untuosità avverso la L.117/1988, pone in risalto, ai fini del riconoscimento del danno, i tratti tipici della responsabilità civile (condotta, nesso causale ed evento) adducendo tale responsabilità al magistrato territoriale che non solo ha omesso le cautele preventive necessarie alla realizzazione dell’evento (in virtù della lacuna normativa del reato di cd. “stalking” al tempo presente) ma, congiuntamente, riconducendo l’evitabilità dell’evento ai soli casi di assoluta impossibilità di una condotta positiva alternativa privando gli antecedenti logici (condotta) sino a dilatare l’incidenza dell’inadempienza ai limiti del caso fortuito e forza maggiore. In sostanza, leggendo tra le maglie della sentenza della Corte territoriale, l’evento dannoso si sarebbe comunque verificato pur precauzionalmente adottando tutte le misure preventive necessarie al fine di evitarlo. Per la Cassazione, tale condotta logica messa in atto dall’operatore di diritto è perplessa in quanto, nonostante alla base dei provvedimenti emessi in osservanza degli artt. 2 (“Responsabilità per dolo o colpa grave”) e 3 (“Diniego di giustizia”) della L.117/1988, la giurisprudenza ha più e più volte affermato l’orientamento che prevede, in tema di responsabilità civile, la verifica del nesso causale tra condotta omissiva e fatto dannoso sostanziandosi nell’accertamento della probabilità positiva o negativa del conseguimento del risultato idoneo ad evitare il rischio specifico di danno. Tale giudizio deve essere effettuato sulla scorta del criterio del “più probabile che non”, conformandosi ad uno standard di certezza probabilistica che, in materia civile, non può essere ancorato alla determinazione quantitativa-statistica delle frequenze di classi di eventi, la quale potrebbe mancare o essere inconferente ma va verificato riconducendone il grado di fondatezza all’ambito degli elementi di conferma (e, nel contempo, di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili nel caso concreto. Dunque, l’adesione alla giurisprudenza (Cass. n. 23197/2018 e Cass. n. 13096/2017) condurrebbe il magistrato ad una via certa sia sotto il profilo della responsabilità - per ciò che attiene all’adozione dei provvedimenti giurisdizionali- sia sotto l’aspetto della valutazione (nonostante la criticità e non di sempre facile individuazione) di una potenziale lesione o messa in pericolo di un diritto soggettivo di cui la persona invoca tutela. In secondo luogo, in tema di responsabilità civile di natura extracontrattuale, la legittimazione del vanto risarcitorio in capo a chi subisce il danno, trova riscontro nella natura stessa della responsabilità di cui il nostro ordinamento ne disciplina il contenuto. Infatti, in caso di conflitto civile che si pone tra i giudici ed i cittadini, il magistrato cd. “professionale” (che si differenza della figura di giudice cd. “funzionario” assoggettato ad una responsabilità di tipo disciplinare la cui rilevanza verso l’esterno - i cittadini - non è considerata stante il provvedimento disciplinare derivante da un rapporto verticale all’interno dell’organizzazione burocratica) si trova in una posizione “orizzontale” verso i cittadini e tale modello assume i tratti della responsabilità civile cui può conseguire la richiesta di risarcimento del danno. Pur essendo, i magistrati, assoggettati solo alla legge (art. 101, comma 2, Cost.), nella valutazione complessiva della fattispecie concreta e, congiuntamente, di emissione dei provvedimenti giurisdizionali, il giudice deve costantemente contemperare e bilanciare gli interessi in gioco: da un lato, le esigenze di tutela dei diritti soggettivi di cui si richiede tutela e, contemporaneamente, dall’altro, la valutazione delle norme da applicare al caso concreto tenendo presente che, sullo sfondo di tale procedimento, pur non essendo presente alcun tipo di vincolo, accordo o contratto, tra il magistrato ed il cittadino che adisce l’intervento giudiziario, intercorre una responsabilità di natura extracontrattuale che si sostanza nella realizzazione di un fatto - ad opera del magistrato - (azione od omissione) il cui elemento soggettivo (dolo o colpa) cagiona (nesso di causalità) un danno ingiusto (fermo restando che non ogni atto o fatto che cagiona un danno è causa di risarcimento - cd. atti illeciti dannosi- ma solo quell’atto o fatto che cagiona un danno ingiusto. Il requisito dell’ingiustizia del danno, pur subendo numerose interpretazioni ed evoluzioni nel tempo, ha trovato una dimensione normativa certa i cui contorni sono definiti nell’individuazione della lesione degli interessi giuridicamente protetti e meritevoli di tutela dal nostro ordinamento). Da ciò ne discende che, proprio in virtù dell’assoggettamento alla legge (di cui il magistrato non ne risulta estraneo tout court), non può sfuggire dal dettame normativo, trovandosi, in questo modo,  con le sue azioni, protagonista e partecipe dell’evento da cui ne potrebbe conseguire il danno creando i presupposti e la base fondante della richiesta di risarcimento danno in capo al danneggiato. Nella sentenza di nostro interesse, tale meccanismo logico che conduce alla imputazione dell’evento lesivo in capo al magistrato, si concretizza nell’omissione delle dovute cautele necessarie alla salvaguardia di quella che poi sarebbe diventata la “vittima” e che l’eccessiva frammentazione degli antecedenti della condotta (in capo all’autore del reato) è stata essa stessa causa di esclusione dell’adozione dei provvedimenti opportuni. Pertanto, sebbene ai sensi dell’art. 101, co. 2 Cost in cui si afferma che “il magistrato è soggetto soltanto alla legge”, ad oggi, in virtù delle modificazioni dei comportamenti e fabbisogni sociali a cui si è sottoposti (ivi compresa l’acuita sensibilizzazione da parte dei cittadini, sempre più attenti e pronti ad intraprendere azioni giudiziarie), la problematica a cui il magistrato è sotteso e chiamato a rispondere, non è meramente circoscritta al solo dettame normativo della L.117/1988 ma si estende ad un ambito ben più allargato comprendente ogni valutazione del dato fattuale al momento storico in cui presiede e di cui intende emettere provvedimento giurisdizionale dovendo soppesare e bilanciare costantemente il proprio grado di indipendenza valutativa del caso concreto con la necessità di chi richiede la tutela giudiziaria, al fine di salvaguardare un diritto soggettivo messo in pericolo od effettivamente leso.


Valentina Minervini, laureanda presso l'Università degli Studi Milano - Bicocca

 

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(1) Concas Alessandra, “La responsabilità del magistrato”, Diritto. it