Le Sezioni Unite sull’appropriazione del PREU quale condotta integrante il reato di peculato

Introduzione

La vicenda che ha condotto alla sentenza in commento, depositata il 16 febbraio 2021, n. 6087, aveva ad oggetto l’appropriazione dell’ammontare delle giocate all’interno delle slot machines da parte del gestore dell’attività di raccolta di tali somme che ne ometteva il versamento alla società concessionaria, dovuto in forza del contratto di collaborazione nella descritta gestione.

A monte, infatti, la convenzione di concessione stipulata tra il Ministero dell’Economia e la società concessionaria, avente ad oggetto l’attivazione e la conduzione operativa della rete per la gestione telematica del gioco lecito, prevedeva la possibilità che quest’ultima potesse avvalersi di ulteriori soggetti gestori, salva la presenza di alcune clausole di garanzia nel relativo contratto.

Peraltro, sulla base di tale concessione e degli attinenti nullaosta alla messa in esercizio delle slot, la società diveniva garante della liceità del gioco e titolare passiva dell’imposta PREU nei confronti dell’erario.

La mancata percezione delle somme a ciò destinate, dunque, derivava dal loro omesso versamento da parte dell’imputato alla concessionaria che, però, si avvedeva di tale mancanza e provvedeva all’interruzione del collegamento delle slot alla rete telematica (appositamente istituita per il controllo della regolarità fiscale e contabile degli introiti) soltanto dopo alcuni mesi.

Il giudice di primo grado condannava l’imputato per il reato di cui all’art. 314 c.p. rilevando come questi si fosse impossessato di denaro pubblico, costituito dal PREU e dall’importo destinato all’Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato (AAMS) a titolo di canone della concessione, nella veste di incaricato di pubblico servizio.

La Corte d’Appello rilevava come l’unica obbligata al versamento del PREU fosse la concessionaria, la quale adempiva comunque a tale obbligo: condotta non inficiante la natura pubblica del denaro oggetto di appropriazione da parte dell’imputato e, quindi, la configurabilità del reato di peculato.

Infine, il difensore dell’imputato ricorreva innanzi alla Suprema Corte ex art. 606, comma 1, lett. b, c.p.p. lamentando l’erronea applicazione dell’art. 314 c.p.

In particolare, si sosteneva che le somme riscosse dal gestore non fossero pubbliche ab origine, ma che costituissero il ricavo di impresa privato, oggetto della tassazione richiesta dall’erario che, peraltro, individua soltanto il concessionario come sostituto di imposta. La condotta di appropriazione di tale somma da parte di un soggetto terzo a tale rapporto tributario, quale il gestore, potrebbe, secondo la difesa, integrare tuttalpiù il reato di truffa aggravata ai danni dello stato ex art. 640, comma 2, n. 1, c.p.

La questione oggetto dell’attenzione delle Sezioni Unite, quindi, verte in primo luogo sulla natura del tributo dovuto e, conseguentemente, sulla proprietà originaria della somma riscossa; in secondo luogo, viene posta in dubbio la legittimazione soggettiva a tale riscossione del gestore ed alla sua possibile qualifica di incaricato di pubblico servizio ex art. 358 c.p.

 

Le ragioni addotte dal ricorrente

Le argomentazioni difensive si avvalevano principalmente di quanto sostenuto dalla recente, seppur isolata, sentenza Poggianti[1]. La pronuncia riconosceva il PREU quale vero e proprio tributo, origine di un’obbligazione tributaria alla quale il gestore dovrebbe adempiere, indirettamente, nella veste di proprietario delle somme incassate: l’art. 39, commi 13 e 13 bis, L. 326 del 2003, prevede quale soggetto passivo dell’imposta il concessionario, obbligato solidalmente con l’eventuale gestore ex art. 39-sexies.

Peraltro, tale imposta sarebbe computata sul ricavo d’impresa dell’obbligato, senza apparente contrasto con la normativa che prevede sì la contabilizzazione delle giocate, ma non sancisce la natura pubblica ab origine delle somme destinate all’assoluzione dell’obbligo tributario.

Infatti, il rapporto civilistico tra concessionario e gestore o, eventualmente, esercente, esulerebbe da quello tributario, qualificando di natura privata il denaro derivante dalle giocate e direttamente acquisito da quest’ultimo[2]. Il PREU, quindi, non sarebbe immediatamente di proprietà dell’erario pro quota sul totale delle somme acquisite, ma dovrebbe calcolarsi su ricavo di impresa della società di gestione che dispone del congegno di gioco, tenuta ad adempiere l’obbligazione tributaria con la parte dei propri guadagni da imputare alla suddetta imposta.

Ne conseguirebbe che il mancato versamento avrebbe ad oggetto denaro proprio, seppur in parte destinato al pagamento del PREU, precludendo la configurabilità del reato di cui all’art. 314 c.p. per il difetto di altruità della cosa.

 

Gli argomenti a sostegno della decisione delle Sezioni Unite

Le Sezioni Unite, tuttavia, prendevano posizione a favore dell’orientamento maggioritario e, prima della sentenza Poggianti, indiscusso.

Occorre innanzitutto premettere che la fattispecie descritta dall’art. 314 c.p. costituisce un reato proprio di danno, in cui la qualifica soggettiva dell’autore (pubblico ufficiale ex art. 357 c.p. o incaricato di pubblico servizio ex art. 358 c.p.) deve risultare causalmente collegata all’appropriazione dell’oggetto altrui. La norma, infatti, specifica che la disponibilità della cosa mobile di altri debba derivare dall’ufficio o dal servizio dell’agente: secondo autorevole dottrina, ciò accade sia nella naturale ipotesi di dipendenza funzionale del possesso dall’esercizio della funzione, sia qualora tale possesso sia soltanto occasionale, ma caratterizzato da poteri dispositivi connessi alle pubbliche funzioni[3].

Appare quindi necessario, per quel che interessa in questa sede, inquadrare la qualifica soggettiva dell’incaricato di pubblico servizio di cui all’art. 358 c.p., che ne descrive la rilevanza oggettiva basata sulle caratteristiche dell’attività svolta.

In particolare, si prescinde dal tipo di rapporto intercorrente tra lo Stato o l’ente pubblico e il prestatore del servizio, conferendo importanza all’esercizio di un’attività regolata allo stesso modo della pubblica funzione, con la sostanziale differenza nell’assenza dei poteri tipici e spesso autoritativi di quest’ultima. Pertanto, sarà necessario individuare nel caso concreto l’espletamento di una simile attività, dovendosi escludere la qualifica ex art. 358 c.p. soltanto in presenza di semplici mansioni d’ordine o attività esclusivamente materiali[4]. Per converso, vi rientreranno tutte quelle attività assimilabili alle pubbliche funzioni che, pur in assenza di poteri autoritativi, concorrano alla cura dell’interesse pubblico a prescindere dal formale inquadramento soggettivo dell’agente.

Nello sviluppo delle argomentazioni esposte dalle Sezioni Unite, la premessa logica e strutturale concerne il funzionamento della rete telematica alla quale sono collegate le slot machines, fondamentale per la comprensione della natura del PREU.

Sinteticamente, tale rete consente il controllo diretto ed in tempo reale sulla regolarità delle attività di gioco lecito, compresa la gestione degli incassi. Alla totalità delle somme incassate, al netto delle vincite “restituite” ai giocatori, l’art. 39, comma 13, L. 326/03 dispone l’applicazione del Prelievo Erariale Unico, “dovuto dal soggetto al quale l’Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato ha rilasciato il nulla osta di cui all’art. 38, comma 5, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, e successive modificazioni”; soggetto che, dal 2004, viene identificato con il concessionario.

Si deduce, quindi, che il PREU abbia natura di imposta sul consumo, rispetto alla quale il contribuente effettivo deve individuarsi nel giocatore, mentre il soggetto passivo di diritto è espressamente il concessionario: il computo dell’imposta, infatti, non avviene sul reddito di impresa di quest’ultimo, ma è direttamente collegato, tramite la rete telematica, alla somma degli importi delle singole giocate effettuate da ciascun utente tramite le molteplici slot[5].

Ponendo l’accento sulla natura dell’imposta, proprio il controllo sopra menzionato è stato posto dalle recenti Sezioni Unite Civili a fondamento della natura pubblica originaria del denaro ad essa destinato[6]. Inoltre, sulla base di quanto appurato dalla Suprema Corte, se l’obbligazione tributaria in questione si fonda sul consumo e non sul reddito, le ragioni che la ricondurrebbero all’esclusiva proprietà del gestore non sono più sostenibili.

A parere di chi scrive, il punto focale della Sentenza in commento è costituito dallo sviluppo delle conclusioni rese dalla richiamata giurisprudenza civile e dagli orientamenti consolidatisi in materia contabile: l’assunto per cui l’originaria proprietà pubblica del denaro ricavato dai macchinari da gioco non contrasti ma, anzi, legittimi la qualifica del concessionario tanto in quanto soggetto passivo dell’imposta, quanto agente contabile.

La natura tributaria del PREU e l’espressa menzione del concessionario quale soggetto passivo di diritto attengono infatti al rapporto tributario, mentre la funzione di riscossione del denaro pubblico, delegabile a eventuali gestori od esercenti, spetta allo stesso concessionario in forza della configurazione complessiva dell’attività di controllo telematico e costante sugli incassi delle slot a lui deputata.

Da ciò deriva che, nonostante la proprietà pubblica ab origine del denaro destinato al PREU, sul concessionario continua a gravare l’obbligo di assicurarne la contabilizzazione tramite la gestione del collegamento dei macchinari alla rete telematica.

Pertanto, appurato che la legge consente di delegare la gestione degli incassi a soggetti terzi al rapporto tributario, il gestore potrà definirsi a tutti gli effetti “sub-concessionario” per quanto concerne l’attività di “scassettamento” degli introiti derivanti dall’attività di gioco lecito e la loro gestione autonoma: un’attività comprendente la verifica della funzionalità della rete telematica pubblica, corredata da obblighi di controllo e di segnalazione poiché, in concreto, priva di una sorveglianza diretta da parte del concessionario.

In merito alla qualifica delle attività gestite come rientrante nel novero dei servizi pubblici, non può mettersi in dubbio che vi esuli il gioco d’azzardo, privo di rilevanza pubblicistica ex se, escluso il gettito fiscale che ne deriva.

Tuttavia, le maglie legislative che delimitano la liceità del gioco, secondo quanto sostenuto dalle Sezioni Unite Civili[7] conferiscono la natura di pubblico servizio alla verifica ed al controllo dell’attività del gioco d’azzardo, altrimenti illecito.

Inoltre, la giurisprudenza costituzionale ha rammentato recentemente la possibilità che tale funzione pubblica soggetta al monopolio statale possa costituire oggetto di convenzioni traslative ex artt. 1 e 2 D. Lgs. 496/48[8]. L’oggetto della concessione qualificato come pubblico servizio, infatti, “non consiste nell’esercizio del gioco d’azzardo, ma nella attivazione e gestione operativa delle reti telematiche” (D.M.E.F. 86/04).

D’altronde, appare comprensibile, come la tutela pubblica si rivolta all’ordine pubblico e alla salute dei giocatori, alla protezione dei minori e di soggetti vulnerabili, unitamente ai citati interessi erariali.

Di talché, anche la gestione del monopolio fiscale connesso ai giochi leciti dovrà qualificarsi tra i pubblici servizi, conferendo la qualifica di incaricato in tal senso a chiunque se ne dovesse occupare, tanto a titolo di concessionario quanto di gestore.

Se il gestore non è qualificabile quale agente contabile al pari del concessionario, egli partecipa comunque allo svolgimento della principale attività di gestione e riscossione di denaro, pubblico ab origine, da lui detenuto in nome altrui. Il rilevante grado di autonomia di tali compiti, inerenti alla verifica dei flussi finanziari per la prevenzione di fenomeni criminali e la tutela degli interessi pubblici sopra citati, inoltre, ne qualifica l’esecutore ex art. 358 c.p.

Occorre, infine, precisare che al totale delle somme incassate dagli apparecchi di intrattenimento, oltre al PREU, una parte andrà destinata al pagamento del canone di concessione, una parte all’aggio del concessionario e soltanto la somma restante costituirà il ricavo d’impresa, diviso tra concessionario ed eventuali gestore e/o esercente.

Quanto ricostruito si inquadra perfettamente nel rapporto di concessione pubblica, da un lato, nei rapporti privatistici seppur provvisti di autorizzazione, dall’altro.

Ne consegue quanto accaduto nel caso di specie, ossia l’appropriazione da parte del privato gestore dell’intera somma incassata dai macchinari, esorbitante la percentuale di imputazione tributaria.

Se, quindi, in capo al concessionario è agevole individuare la astratta qualifica di agente contabile deputato alla riscossione delle somme da lui stesso dovute in quanto soggetto passivo, non si evidenziano particolari ostacoli all’identificazione del gestore quale sub-concessionario, a maggior ragione deputato all’incasso e al versamento in forza della sua attività di gestione materiale dell’apparecchiatura. Occorre ricordare, infatti, che l’adempimento del pubblico servizio nella riscossione e versamento del PREU, qualificante ex art. 358 c.p., da parte del concessionario non fa venir meno la configurabilità del reato ex 314 c.p. in capo al gestore proprio in forza dello stesso incarico, seppure astratto dal diretto rapporto tributario.

 

Conclusioni

Sulla base di quanto esposto, la natura tributaria delle somme destinate al PREU non incide sull’altruità del denaro, acquisito nomine alieno dal gestore di tutti gli incassi, partecipante all’attività di agente contabile propria del concessionario e qualificato così ex art. 358 c.p. Proprio tale attività, sottolinea la Suprema Corte, ha consentito la rilevante sottrazione delle somme da parte dell’imputato e la commissione del reato di peculato di cui all’art. 314 c.p. anche per la percentuale imputabile all’imposta di cui sopra, unitamente alle somme destinate al concessionario e al pagamento del canone.

 

Dott. Nicolò Zanotti



[1] Cass. Pen., Sez. VI, n. 21318/18.

[2] Peraltro, la difesa rilevava come il concessionario non veniva definito espressamente quale sostituto d’imposta in relazione al PREU, ma come mero soggetto passivo, differentemente da quanto previsto nell’ambito del gioco del lotto.

[3] Si veda, per approfondimento e richiami giurisprudenziali concordi, LATTANZI, Codice penale: annotato con la giurisprudenza, 2008, p. 811.

[4] Esemplificativamente, si pensi al servizio svolto dai tabaccai all’interno del circuito “Lottomatica”, fondato sulla convenzione con gli organi regionali competenti, che consente loro di determinare, riscuotere e rilasciare la relativa ricevuta in merito al pagamento delle imposte automobilistiche: per quanto concerne tale attività, la giurisprudenza è ormai pacifica nell’inquadramento dei tabaccai ai sensi dell’art. 358 c.p., ex multis, Cass. Pen., Sez. VI, n. 39359/12; per un approfondimento si veda DI ROMANO, MARANDOLA, Delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, 2020, Cap. 2, par. 4.

[5] In merito, le Sezioni Unite richiamano Corte Cost., n. 334/06.

[6] Sez. U. Civ., n. 14697/19. Si richiamano, inoltre, plurime pronunce della giurisdizione contabile, fra cui Corte Conti Lazio, Sez. reg. giurisd., n. 2110/10.

[7] N. 14697/19, cit.

[8] Corte Cost., n. 54/15.