Punibile l’extracomunitaria che fa praticare l’infibulazione sulle figlie minori

In alcuni gruppi etnici dislocati soprattutto nell'Africa subsahariana (ad esempio, Somalia, Mali, Etiopia, Eritrea, Kenya, ecc.) e in alcune circoscritte regioni dell'Asia (Indonesia, Malaysia, Yemen, Emirati A.U.), per motivi socio-culturali e tradizionali, incomprensibili per noi occidentali, sono diffuse alcune pratiche di modificazione degli organi genitali femminili, attraverso le quali si attua una sorta di controllo sulla sessualità e sul corpo della donna.

Le mutilazioni genitali femminili sono sostenute da motivazioni socio-culturali millenarie, radicate in quei gruppi etnici, quali l’onore familiare, le credenze sull'igiene, la preservazione della verginità e il rafforzamento della fedeltà matrimoniale. Tali tradizioni arcaiche, come è evidente, ledono i diritti fondamentali della donna: il diritto alla salute e all'integrità fisica, il diritto alla pari dignità sociale, il diritto alla non discriminazione, il diritto alla vita.

In Italia, la mutilazione degli organi genitali femminili costituisce un reato previsto e punito dall’art. 583 bis c.p., introdotto dalla legge n. 7/2006. L’art. 583 bis c.p., prevede due diverse fattispecie incriminatrici: la mutilazione degli organi genitali femminili e le lesioni agli organi genitali femminili.

Ai sensi del 1° comma dell'art. 583 bis c.p., è previsto che "chiunque, in assenza di esigenze terapeutiche, cagiona una mutilazione degli organi genitali femminili è punito con la reclusione da 4 a 12 anni." La norma precisa che "si intendono come pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili la clitoridectomia, l'escissione e l'infibulazione e qualsiasi altra pratica che cagioni effetti dello stesso tipo".

Al 2° comma, invece, il legislatore stabilisce che "chiunque, in assenza di esigenze terapeutiche, provoca, al fine di menomare le funzioni sessuali, lesioni agli organi genitali femminili diverse da quelle indicate al primo comma, da cui derivi una malattia nel corpo o nella mente, è punito con la reclusione da 3 a 7 anni": La norma introduce, quindi, una diversa fattispecie, punita meno gravemente, in modo da non avere lacune di tutela nei confronti di tutte quelle pratiche che, pur non comportando una vera e proprio mutilazione, comportano comunque una lesione agli organi genitali femminili.

La Corte di Cassazione con sentenza 14 ottobre 2021, n. 37422 si è occupata del caso relativo ad un genitore che sottopone i propri figli a pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili accettate dalla cultura radicata nel proprio paese d’origine.

Gli ermellini hanno enunciato il seguente principio di diritto:

"Non è invocabile il principio della c.d. ignoranza inevitabile della legge, introdotto dalla Corte cost. con la sentenza n. 364/1988, da parte dello straniero extracomunitario che abbia sottoposto i propri figli a pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili (reato previsto dall’art. 583-bis, c.p.), non potendosi tener conto dell’asserita sicura inferiorità dovuta alle condizioni soggettive, rappresentate dalla inadeguata conoscenza della lingua e della cultura italiana, dall'essere da poco tempo in Italia, conseguendone la scarsa integrazione nel contesto sociale italiano, dal basso livello di scolarizzazione anche nel proprio paese di origine, dalla mancata sanzionabilità delle pratiche di mutilazione genitale e dalla millenaria "cultura" di queste presente nel paese d’origine, avendole lei stessa subite".